C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)

C'est en écrivant qu'on devient écriveron (Raymond Queneau)
"C'est en écrivant qu'on devient écriveron" (Raymond Queneau)

sabato 23 dicembre 2023

Omoteleuti

 


Giovanni abita poco distante da casa mia. Ci fermiamo spesso a bere un caffè insieme, così ci lasciamo andare a qualche confessione. Tra conoscenti si può, anzi è preferibile per poi divenire amici. E noi ci stiamo impegnando, sappiamo che prima o poi ce la faremo. 

Anzi negli ultimi tempi abbiamo, di comune accordo, pensato d’intensificare questi incontri proprio per arrivare al più presto a questo traguardo.

Un problema, però, si è naturalmente posto sin dai primi giorni:  quando ci saremmo potuti definire dei veri amici? 

Dopo ampia e articolata discussione, sempre di comune accordo, stabilimmo che dopo cento caffè, e dopo altrettante chiacchierate, si sarebbe materializzato, tra noi, questo nuovo status.

Vedendosi ogni giorno, nel giro di tre mesi o poco più, avremmo raggiunto l’obbiettivo. 

Per i primi tempi tutto andò bene e facilmente arrivammo a quota venticinque incontri. Poi fui colto da una forma perniciosa di influenza sicché saltammo una settimana. Dopodiché ci vedemmo altre cinque volte e a lui venne il mal di schiena. Un’altra settimana di fermo.

Sarà stato a causa di queste pause non programmate ma, tra noi, inizio a serpeggiare un sentimento di stanchezza. Arrivavamo in ritardo agli appuntamenti (che duravano sempre meno) e svogliatamente parlavamo del più e del meno, guardando fissi lo schermo del cellulare.

Comunque eravamo bene determinati a non rinunciare al nostro  proposito per potersi finalmente dire amici. Quello era il nostro obiettivo e ci saremmo arrivati a tutti i costi.

Dopo un breve conciliabolo e qualche accesa reciproca recriminazione ( che non si conciliava affatto  con i nostri propositi di amicizia) venne fuori un’idea preziosa e singolare. Per raggiungere il nostro fine ci saremmo fatti sostituire. 

Sì proprio così, due sosia avrebbero continuato, al posto nostro, questi incontri alla caffeina. Deciso. E così fu. 

Senonché arrivati verso i sessanta rendez-vous anche i sosia furono stufi e cercarono, a loro volta, due sostituti. Questi ultimi, però, arrivarono fino a ottantacinque incontri quando, sfiniti, lasciarono l’onere ad altri, che arrivarono a novantacinque prima di affidare, ad altri due simili, l’onore di arrivare, faticosamente, a cento. 

Era passato un anno e mezzo dal nostro primo incontro. Malattie,     impegni imprevisti e difficoltà a trovare le sostituzioni avevano, infatti,  richiesto  molto molto tempo.

Una telefonata anonima alle sei del pomeriggio mi avvisò del raggiungimento dell’agognato obiettivo.  A Giovanni, che intanto aveva perso il mio numero di cellulare, lo avvisarono, l’indomani, i proprietari del bar.

Non vi sto a raccontare altri particolari, vi basti sapere che ci fu chiesto, infine, di saldare il conto delle consumazioni. 

Da quel momento non ho più rivisto nessuno.



©2023 Gianfranco Brevetto

mercoledì 8 novembre 2023

Adamo, Eva e il succo (biologico, non filtrato) alla mela





Lo sapevo. Lo sapevo e non poteva andare altrimenti. Gli elementi c’erano tutti: un uomo, una donna e un frutto. Biologico, non filtrato ( particolare da tenere a mente). 

Ma, è chiaro, tutto questo non può bastare in una sana e robusta mitologia: poteva essere il paradiso, invece tutto crollò.

Ma veniamo all’accaduto ( che si è svolto pochi giorni fa, non ricordo bene se un venerdì o un sabato, poco importa). I protagonisti sono due miei amici, tra i più cari. Lui ha avuto in sorte il nome di Adamo e, la stessa sorte o una similare, ha permesso ( o concesso) che andasse in sposo a una gentile signora di nome Eva. 

Cosa c’è di strano? Nulla, una singolare coincidenza. Le coincidenze si dicono sempre singolari, un giorno (venerdì o sabato non si sa) tratteremo delle coincidenze plurali (un bel dire, le coincidenze sono sempre impegnative indipendentemente dal numero). E poi, le mitologie sono coincidenze create ad arte. Un artefatto insomma. 

Nel caso in questione, la coincidenza fu del tutto naturale, nessuno la raccontò,  si raccontò da sé. 

I miti e gli artefatti, a volte, non se li fila nessuno.

E si sa, le cose che si raccontano da sole vanno da sé e, spesso, nessuno le ferma più. E son dolori. 

In questa storia, che brevemente vi sto per riassumere, tutto poteva concludersi bene. 

Invece no.  

Se la trama dipendesse da me, vi assicuro che l’avrei fatta concludere in modo diverso. Le storie vanno da sé, si diceva.

Allora questi due amici, Adamo ed Eva, assetati, in un giorno d’estate, acquistarono un succo (biologico, non filtrato) alla mela. 

E allora ve la siete voluta! Avete provocato! Diranno i più. 

Premetto che il serpente non compare in questa vicenda, non era poi necessario. Se questa storia fosse un artefatto ci sarebbero tutti gli ingredienti. Alcuni necessari, altri sufficienti ad allungare il brodo. 

Nel racconto che si autogenera alcuni elementi non ci sono ( chi legge se ne faccia una ragione o si rivolga ad un editor ad hoc). 

Ma un castigo ci fu, quello sì anche senza tentazione e senza peccato alcuno (vi assicuro che Adamo ed Eva sono due bravissime persone).

La verità è che se una storia va da sé, farà un pò come vuole. Rex in regno suo est imperator.

Cosicché la storia volle raccontarsi a modo suo, ma senza molta fantasia. Approfittò della salute malferma dei due. Perfide le storie, quando ci si mettono d’impegno.

E, se non ci fosse stata una colite preesistente e conclamata di cui non tennero conto all’atto dell’acquisto del succo di mela, il nostro pomeriggio d’estate, per Adamo ed Eva, sarebbe passato inosservato e dimenticato. 

Così non fu, pur senza colpa alcuna. 

Vi assicuro che ora stanno meglio. 

Così è stato.




Gianfranco Brevetto   2023

domenica 29 ottobre 2023

Ore illegali e ore insolari




Devo confessare che, da qualche anno a questa parte, approfitto del cambiamento dell’ora, non importa se legale o  solare, per, in qualche modo, barare. Un piccolo peccato veniale.

E così, in luogo di mettere, semestralmente, avanti e intero le lancette dell’orologio, fingo di confondermi e le piazzo decisamente sempre sessanta minuti  in avanti.

Ero stufo di questo andirivieni semestrale deciso per legge, preferisco da solo avvantaggiarmi col tempo, a costo di qualche ora di sonno mancante e qualche pranzo notturno. 

Poco male, perché ogni ventiquattro anni mi rimetto in pari pur con un giorno d’anticipo su una parte dell’umanità.

Sicché, cari amici, considerando il tempo trascorso in questo finimento truffaldino, ora viaggio  senza tema nel futuro prossimo.

Poco di più con due giorni e mi auguro, a Dio piacendo, di poter guadagnare ancora qualche oretta di anticipo. 

Ogni 12 anni cambio lavoro e prediligo quelli notturni, cosicché mi è stato più facile adeguarmi alla mia ostinata e irrevocabile decisione. Ne vado fiero.

Va da sé, considerando le esigenze di trama di questa breve storiella, che stanotte ho perduto il mio orologio, in verità in un primo momento credevo di aver sognato il verificarsi di una tale iattura.

E, invece, quella grave perdita era tutt’altro che onirica. Ricordavo, ne ero certo, di averlo appoggiato sul comò, sul tinello, magari sulla madia o su di un altro mobile dal nome desueto. 

Ricordavo anche che avrei dovuto spostare in avanti le lancette, ma non ricordavo, senza il mio caro assistente, in che giorno e a che ora fossi. Per quanto sforzi facessi, questa assenza aveva reso vano ogni mio sforzo di vivere in anticipo con grandi sacrifici e menzogne personali.

La prima cosa che feci, allora, guardai l’orologio posti sul campanile. Fu un grave errore perché ripiombai in quella realtà che avevo creduto di abbandonare nel corso di tutta la mia esistenza. Ero come un ciclista in fuga che, repentinamente, viene raggiunto dal gruppo dei suoi compagni di corsa.

Usci in strada per vedere cosa stesse accadendo agli altri in quell’ora e in quel giorno per me insolito. Dopo aver girovagato per un pò, sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla.


-Guardi che a me è acceduta la stessa cosa - mi ha detto un signore molto più anziano di me.

- Ma di cosa parla? non capisco - gli risposi

- Non faccia lo gnorri, ho perso anche io recentemente un orologio illegale e insolare. Ma, a differenza di lei, l’avevo messo non una ma sei ore avanti, mi ricordo bene quando l’ho superata velocemente più volte.

- Bravo! Ha barato!

- Come del resto lei! Esistono persone con orologi avanti di 12 ore che sono avanti di settimane. Ma anche chi regola le lancette indietro di anni per arrivare velocemente al medioevo. Lei ha solo scoperto recentemente questo giochetto e forse non riesce a a capire quali sono le conseguenze…

- Io credevo di essere il solo…

- Invece no! Osservi bene queste persone, ognuno ha il suo tempo, tutti con il proprio orologio taroccato in tasca… 

- Dice davvero?

- Ognuno vive in un suo tempo che crede essere reale, ma di realtà c’è solo  un tempo fasullo fatto di tanti orologi regolati a piacere. Lei è semplicemente un falsario come tanti…

- Ma come si permette? Chi è lei?

- Ah, ecco non mi ha riconosciuto… avrei dovuto immaginarlo, io sono un semplice ladro di orologi, mi nutro delle vostre falsità. Alcuni mi chiamano ansia, ma non hanno capito nulla di me.



 Gianfranco Brevetto 2023

sabato 4 marzo 2023

Il Bibliofago


di Gianfranco Brevetto

Dopo circa due ore che contemplavo, alla dovuta distanza, gli scaffali disordinati della libreria che mi si parava di fronte, presi la decisione che ritenevo più opportuna e necessaria.

Mi credevo abbastanza maturo per portarla a termine. A quell’età non potevo essere certamente rimproverato o criticato, biasimato, ingiuriato, preso in giro, ritenuto folle. 

Se si è maturi, lo si è per tutto.

Si trattava solo di scegliere da dove iniziare. Senza dubbio dalle pietanze più leggere, e dal gusto più delicato, per evitare di coprire, successivamente,
 altri sapori .

Iniziai quindi da un libro di qualche anno fa, con pagine ingiallite e porose. Copertina rigida, che avrei scartato da subito, e rilegatura con filo, che me lo facevano sentire simile ad un involtino, ricordo della mia infanzia.

Ne assaggiai un angolino, una pagina già consumata che credevo sarebbe stata più digeribile, e non mi fermai fin quando non la mangiai tutta (avevo iniziato da pagina 88 che secondo me doveva essere tra quelle centrali, le più saporite).

Ricordai che una volta, un bambino, di nome Michelino aveva immerso nel latte un libro cartonato con dei dinosauri. Poi lo aveva addentato, era visibile sulla rigida copertina colorata l’impronta indelebile dei suoi nuovissimi incisivi. 

Avevo, quindi, deciso che, quei libri davanti a me, li avrei mangiati uno alla volta fino a farli scomparire tutti nel mio stomaco e nel mio intestino. Erano tanti, calcolai che l’impresa sarebbe durata diversi anni. Non avevo fretta, i libri vanno digeriti con calma e con il dovuto rispetto.

Quel pomeriggio, in cui tutto ebbe inizio, per  poterne valutare anche l’effetto sul mio apparato digerente , ne consumai con una certa voracità quasi cinque pagine. Poteva bastare. Bevvi un paio di bicchieri d’acqua, riempiti quasi all’orlo, e attesi.

La notte passò tranquilla, piccoli brontolii mi segnalavano forse le parole più difficili da mandare giù. Le virgole, e in generale tutta la punteggiatura, si evidenziarono in un alternarsi di singhiozzi, le parentesi e i i nuovi paragrafi si risolsero in leggere apnee notturne.

Fin qui nulla di anormale. Pensavo che la mia dieta avrebbe potuto reggere nel tempo. La bibliofagia, credevo in perfetta buona fede, avrebbe potuto anche risolvere, almeno in parte, la fame del mondo. La mia certamente.

In fondo cosa ne avrei potuto fare di quei libri accumulatisi negli anni? Chi li avrebbe più letti? Chi avrebbe compreso il senso e la sequenza con la quale erano stati ricercati ed acquistati? 

Non esprimevano, ora, più nulla. Certo non l’ansia dell’attesa dopo averli ordinati nelle più svariate librerie. Non di certo le questioni che attendevo potessero risolvere, le domande espresse durante la lettura, le risposte date e quelle che si erano inutilmente accalcate tra le loro pagine. 

La cosa che più mi sconvolgeva é che non ne avevo, nella disposizione sugli scaffali, conservato la cronologia con la quale li avevo acquistati. Non la ricordavo neanche io. Sì qualcosa, adesso che li avevo lì davanti, potevo intuirla. Ma perché li avessi acquistati con quella determinata sequenza, quali pensieri e riflessioni mi avevano condotto dalle pagine di uno alle pagine dell’altro, erano ricordi che non avrei più recuperato. Non era più possibile ricostruire quasi mezzo secolo di tracce e concatenazioni.

Tanto valeva mangiarli.

Col passare dei giorni, dei mesi, degli anni, ne avevo gustati di tutti i tipi, avevo anche segretamente organizzato una dieta che mi consentisse di variarne il formato e la rilegatura. Li addentavo tutti esclusivamente crudi e senza condimento.

Tutto procedeva nel migliore dei modi possibili.

Ero soddisfatto di quello che stavo facendo fino a quando, un giorno, non mi imbattei in un mio quaderno, scritto quando ero bambino. Un ricordo senza valore letterario.

Lo sfogliai e lo riguardai più volte, era unico. Lo rilessi perché sicuramente, dopo, non avrei più avuto modo di tenerlo tra le mani. Provavo nei confronti di questo testo insieme desiderio e disgusto.

Lo accarezzai, cercando d’individuare dove poterlo addentare. Di fronte alla libreria oramai quasi vuota, che mi mostrava le venature di legno e la polvere negli anni incrostata, mi chiedevo se fosse lecito questo atto di cannibalismo, se poteva ritenersi umano nutrirsi delle proprie parole, delle prime parole scritte, dell’inizio inconsapevole di tutto quello che sarebbe accaduto dopo.

Mi chiesi anche quale fine avevano fatto, nel tempo, le tantissime frasi che avevo scritto nella mia vita. Dai quaderni delle elementari fino ad quel momento.

Doveva trattarsi un grandioso, vasto e inutile deposito che ora, io inerme, mi opprimeva. 

La mia stessa scrittura mi aveva sepolto sotto uno strato invisibile e non più recuperabile. Guardando quel libricino la fame mi era passata. Mi addormentai presto quella sera.

Dopo tanti anni sono ancora lì, con una libreria vuota e quel quaderno, composto da scrittura traballante e sgraziata, stretto tra le mani. 


© 2023


sabato 6 novembre 2021

Del patto di non rivedersi


 

Del patto di non rivedersi

m’innamorai.

Del non stabilire

ore,

giorni,

luoghi.

Il ripetersi

dell’affollarsi nelle agende.

Abbiamo bisogno

(converrai)

di altri segni,

non comuni.

Lasciati al caso.

Un improvviso ricordo

(il riaffiorare di un oblio)

Un inconfessato segreto

(una libera associazione)

Al patto di non rivedersi

consegnammo il passato.

Al poi

(il di là da venire)

fummo,

in eterno,

fedeli.



 

(Altri segni ©2021 G. Brevetto)


martedì 28 settembre 2021

Io, Pinocchio, Giona e altri indigesti


 

Soffro da tempo di gastrite, ma questa sarebbe una notizia di poco conto se non fosse per le sue conseguenze impreviste e che si condensarono in quel giorno di fine estate. 

Nel tardo pomeriggio, deciso a non cedere alle ricorrenti voci sulle sopravvenienti ambasce legate al cambio di stagione, mi decisi per una lunga passeggiata in riva al mare. Così giunsi al luogo in cui, normalmente, le correnti determinano una piccola penisola sabbiosa e questa si estende per una decina di metri al di la della linea del bagnasciuga. Lì c'era qualcosa mai notata prima, come se fosse uno scoglio nero di natura vulcanica, un promontorio scuro, rotondo, levigato e reso lucente dall’umidità marina.

La gastrite, come confermato da un recente sondaggio, rende curiosi. Di una curiosità mista a malinconia, strana a descriversi, tuttavia conclamata nella sua sintomatologia, peraltro descritta ampiamente in letteratura medica. Mi avvicinai, dunque, cercando d’individuare il punto in cui lo scoglio sembrava affiorare dalle acque circostanti.

Di lì a pochi metri mi apparve evidente che l’oggetto, che ora si mostrava come animato e sopito, fosse giunto in quel luogo da poco e pareva in attesa. Mi avvicinai ancora un po’ e poi ancora qualche centimetro. Quando fui lì quasi a toccarlo, quella cosa, ricordo con un certa confusione, si separò in due perpendicolarmente alla spiaggia. E io, risucchiato o spinto, non vi so dire, mi ritrovai al buio.

Dopo qualche minuto le pupille, avvezze fino a un attimo prima alla luce del sole, si abituarono a quella penombra e, distinguendo nel chiaroscuro, cominciai a capire. Un’enorme mucosa mi separava dal mondo esterno del quale, ora, percepivo in lontananza le grida dei bambini che giocavano a racchettoni sulla spiaggia.

Poi, con lo stesso ritmo lento, solenne e irreversibile di un treno che parte, quella mucosa si mosse. Mi sedetti. Le mie orecchie mi segnalavano che la pressione esterna stava variando rapidamente, poi, d’improvviso, si stabilizzò.

Mi alzai in piedi e, eccetto qualche piccolo ondeggiamento, riuscivo a non perdere l’equilibrio. Mi addentrai nella direzione che credevo contraria a quella in cui ci muovevamo. Feci  qualche passo e vidi, comodamente seduti su una sorta di cartilagine rosea, due personaggi che discutevano animatamente.

Non potevo non riconoscerli. Approfittando di una pausa in cui sembravano entrambi riflettere, mi presentai. Il mio nome non disse loro nulla, mi salutarono distrattamente e proseguirono a parlare ad alta voce. Non mi rimase che sedermi anche io ad ascoltare.

Il personaggio biblico sosteneva l’unicità e l’autenticità della sua disobbedienza e del suo pentimento. L’argomentazione si basava soprattutto sul rapporto con il divino, cosa che sembrava mancare al suo interlocutore. Quest’ultimo, a cui gocciolava il naso per la forte umidità, riteneva che la veridicità del pentimento fosse testimoniata dall’avvenuta metamorfosi in un bambino vero e che, la Fata Turchina, avesse qualcosa di divino, almeno nel colore dei capelli. Il profeta non ne era convinto e lo canzonava chiedendogli, senza sosta, chi fosse l’autore di quella presunta metamorfosi. Il bambino, confuso, non sapeva rispondere. Piagnucolando, parlava di suo padre senza mai citare sua madre.

La discussione, più o meno in questi termini, andava avanti e ritenevo, non avendo un orologio con me, che fossero già trascorse più di due ore, quando mi rivolsi loro chiedendo come mai quelle mucose che ci trasportavano non ci avessero ancora digeriti.

Dopo aver riflettuto, i due personaggi fecero un timido tentativo di mettere in dubbio l’esistenza di un animale marino che li includeva e anche di una realtà esterna. A sostegno della mia tesi, basandomi sull’evidenza, mostrai alcune foto nella quali mi si riconosceva mentre ero intento a ammirare un panorama, con colline e alberi da frutto. In quella immagine ero insieme ad un amico, ma in quel momento non seppi dirne il nome, non lo ricordavo. La cosa mi accade spesso ma, preso come ero dal discorso, non me ne preoccupai.

Mi chiesero allora se fossi il frutto delle fantasia di qualcuno, se ero stato narrato da qualche libro a loro sconosciuto o se  avessi almeno disubbidito? Risposi loro di no (forse mentendo). Da lì segui un’altra interminabile discussione sulla mia reale natura. Sull’argomento mi astenni, disperdendo il mio sguardo altrove. 

Fu così che notai che quell’enorme mucosa procedeva per ambienti successivi e si diramava oltre, in cunicoli, procedendo per spasmi e singulti. Lì s’intravedevano altre persone, alcune mi sembrarono familiari, altre meno. Tutti mi parevano, però, intenti a discutere nel tentativo di provare o negare il loro rapporto con una divinità, la presunzione di aver o meno rispettato la legge, alcuni parlavano di predestinazione.

Sono alcuni anni che li ascolto parlare, non sempre con interesse. Le mucose mi hanno causato un leggero eritema. Continuo a chiedermi, tuttavia, perché io, come gli altri miei compagni di viaggio, siamo risultati indigesti. 

A distanza di tempo, un’idea me la sono fatta, ma non ha più nulla a che fare con la gastrite.

 

©2021 Gianfranco Brevetto

 

 

 

venerdì 25 maggio 2018

Donne grasse, non tatuate le vostre cosce!


Ogni giorno mi sono imposto di fare una piccola passeggiata. Breve, per carità. La faccio per riprendere contatto con il mondo, per sprofondare nella necessaria perdita di senso che mi provoca il varcare l’uscio di casa. Oggi, quindi, al termine della quotidiana camminata, riflettevo su un arbusto che vedevo spuntare al lato, sul cigno per meglio dire, della strada. Non ricordavo come si chiamasse anche a causa della personale difficoltà nell’associare fiori e alberi ai rispettivi nomi, che a me risultano essere troppo complitati per evocarli alla bisogna.
Non so voi, ma quando mi concentro su qualcosa mi capita di guardare involontariamente in giro. La testa ciondola nel disperato tentativo di corroborare (ma non in senso popperiano) il pensiero, l’idea giusta, che tarda a manifestarsi. Così, assorto dall’arbusto, lo sguardo si è posato sulla base di un monumento sulla quale era tracciata una frase: Donne grasse, non tatuate le vostre cosce!
La scritta era in un bel verde brillante, tutta in corsivo tranne grasse e cosce, che erano in stampatello. Più che il senso della frase, del resto molto grossolana e offensiva, mi avevano colpito l’assonanza tra le parole in stampatello e il fatto che chi le aveva scritte, pur brillando in volgarità, avesse risparmiato, al peripatetico lettore, il comune errore ortografico consistente nello scrivere il plurale di coscia con una i in più.
Questo nuova riflessione mi aveva distratto dall’arbusto e dal suo nome e la mia attenzione si era trasferita alla scritta verde. Solo dopo un centinaio di metri, con in mente questo nuovo pensiero, mi fermai a riflettere sulla correttezza di quella affermazione. Bah! Quale fastidio poteva creare il tatuaggio sulla coscia di una donna grassa? Forse lo stesso dell’inestetismo provocato nel vedere individui corpulenti indossare maglie a larghe strisce orizzontali? Chissà.
Il dubbio persisteva nonostante il trascorrere delle ore. Per evitare di affrontare una notte agitata, prima di cena ho telefonato ad una mia amica il cui nome comincia per A. Mi ha detto che aveva avuto molto da fare durante il giorno e mi avrebbe potuto dedicare solo cinque minuti. Le ho spiegato molto velocemente cosa mi era accaduto. Che ne ero stato molto turbato non però per l’errore ortografico assente e nemmeno per la rima mancata, che il mio primo pensiero era andato al fatto che era una scritta offensiva, che prima però avevo pensato all’arbusto, che non ricordo mai il nome delle piante e degli alberi, che avevo visto la scritta solo perché la testa mi ciondola quando penso, che non riuscivo a capire se fosse per un problema estetico, che allora le donne grasse potevano ben tatuarsi i polpacci, che però così non c’era rima, che forse era meglio disegnarsi le caviglie, che non sapevo se fosse giusto tatuarsi, che questo valeva sia per i grassi che per i magri, che però lo facevano tutti, che a porsi questi problemi si rischiava di essere impopolare, che io non sapevo se i tatuaggi colorati fossero più belli, che io avevo un neo sul braccio e mi bastava…
Il silenzio prolungato di lei fu il segno che i cinque minuti erano trascorsi. Pronunciai due volte il suo nome come per vedere se ci fosse ancora. Forse era caduta la linea.

©2018 G. Brevetto (da Ossalati di Calcio e altre Calcolosi)

lunedì 20 marzo 2017

IL POETA È MALATICCIO

Il poeta è malaticcio,
alticcio,
scanzonato.
Altre, similmente è tristo,
ombroso,
sfortunato.
Lui veste grigio o di nero
è vero:
trascurato.
Un poeta è d'altri tempi?
no, no, no:
riciclato.
Vuol lui così dimostrare
che a volte,
per campare,
un bel po' travestirsi occorre
ed anche
tralasciare
Il contenuto ed o la rima
o quel ch'è
detto prima:
di quell'effetto comico
dell'abito,
del monaco.

© 2017 G. Brevetto, da “Lo sciamano vegano e altri scritti antropometrici”

giovedì 26 gennaio 2017

'MBA O GLOC O CIOC (O ROBA DEL GENERE)

Stanotte i miei sospetti sono stati confermati. Da qualche giorno un rumore, come un ronzio (ma molto più forte, tanto da far vibrare i muri) viene dal piano di sopra  o dalla signora cha abita nell’appartamento di fianco (chissà?).  
Il rumore non è solo prodotto da una vibrazione, ma anche da un trapanare o  rovistare. Ma anche un mescolare, di fluidi come quasi solidi ma non molto compatti. Infine, da un versare (stando attenti a raccogliere l’ultima goccia coll’indice)  seguito da uno schiocco come quelli che si fanno risucchiando indentro le guance e allargando, poi, le labbra di scatto: insomma a me sembra un rumore tipo un ‘mba o gloc o cioc (o roba del genere).
Il citato rumore, aggiungo per facilitare la comprensione dei fatti, non è continuo ma si manifesta solo per alcune ore nel corso del giorno e della notte. Stanotte, io, questo rumore l’ho sentito bene. Mi rigiravo nel letto, presumo per un’insonnia temporanea dovuta a cause ancora in corso di accertamento ( ma ho anche lì dei sospetti), quando d’improvviso mi è apparsa la soluzione. Di tutto. Cioè di tutto quel vibrare, mescolare, versare e ‘mba o gloc o cioc o che dir si voglia.
Avevo già da qualche minuto scartato del tutto la natura umana del rumore, quando ho capito che doveva essere uno di quei casi in cui si è messi di fronte alle-cose-stesse (si dice così per non confonderle con le-stesse-cose). Messo di fronte a quella realtà, ero finalmente riuscito ad aver chiaro ed evidente  quel ronzare-vibrare-versare-schioccare, con tutta la sua natura di versare-per-riempire ( diciamo del ruolo della tecnologia, con tutte e sue implicazioni). Ma anche quell’assaggiare-per-gustare, o meglio (e perdonatemi l’imprecisione precedente) dell’ affondare-cucchiaino-sollevarlo-portarlo-alla-bocca-per-poi-richiuderla-estraendo-il-cucchiaino-stesso.
Proprio mentre le cose-stesse si andavano sempre più complicando (e dopo aver cercato in casa una caramella al miele)  mi sono arreso a quella che poteva e doveva essere la fonte di quel rumore. Dopo aver ascoltato ininterrottamente ancora per cinque minuti, nel silenzio notturno ho definitivamente sentenziato: è una macchina per produrre yogurt!
Ora, se di sopra o nell’appartamento di fianco producono yogurt deve pur esserci un camioncino, un’insegna, un indizio che dica che qui accade tutto ciò. Tutto sembra tacere, tutto tranne il ronzio. Ecco ci sono, ho capito: Lo smerciano nel palazzo, nottetempo! Lo assaggiano senza dirmi nulla. Approfittano della mia buona fede e del fatto che io gli yogurt li compro al supermercato (quando ci sono gli sconti).
E, se la causa è comunque maggiore dell’effetto, devo dedurne che si tratta di una classica cospirazione-contro-di-me. Non lo so, forse una volta avevo visto un vasetto di vetro che fuorusciva da un sacchetto di rifiuti che era stato dimenticato all’ingresso del palazzo. Ma tutto qui e, prima di parlare di cospirazione, ce ne vuole. Ma se di cospirazione si tratta è inutile verificare: tutti mi prenderebbero per matto.
Il mio amico Filippopiero, di professione psichiatra da poco abilitato alla professione,  è stato da me contattato nella tarda mattina del giorno 10 novembre. “Sei stressato – mi ha detto – dovresti far attenzione alla tua salute, oramai hai una certa età.” Mi ha detto anche di stare attento ai sogni, forse ingannano.  
La sera sono rientrato a casa, le scale sono imbrattate di una sostanza bianca dal sapore acidulo. Ho chiesto alla mia vicina e, prima che chiedessi, ha detto che certamente non è yogurt. In casa ho notato che il ronzio si è fatto ancora più evidente. È ancora un vibrare, mescolare, versare e ‘mba o gloc o cioc o che dir si voglia.
Alle 23 e 35 del 10 novembre ho pensato che Filippopiero avesse, in fondo, ragione.
Si tratta di un inganno: il sogno ricorrente degli inquilini del palazzo è una macchina per fabbricare yogurt. Gli altri pensano, dunque io sono.  

© 2017 Gianfranco Brevetto      

lunedì 28 novembre 2016

LA LEZIONE DI PROVA CHE TI CAMBIA LA VITA


È da un po’ di tempo che mi annoio. Qualche ora. Sto pensando, quasi  quasi, di iscrivermi ad un corso di non so cosa. In tutti i casi,  sarebbe meglio una lezione di prova. Tanto per vedere chi c’è.
Ho cercato in giro qualcosa d’interessante, ci sono tanti corsi e tutti mi sembrano indispensabili. In verità, sarei un po’ in ritardo per l’iscrizione, ma mi accetterebbero lo stesso.  
Potrei iniziare mercoledì, alle 19, con la lezione di prova, c’è anche il maestro. Sarei quindi impegnato tutti i mercoledì e venerdì. Si tratta di un percorso molto bello e progressivo. Ma non so decidermi.
Ho anche una certa fretta, aumentata dalla noia. Sì un corso , a questo punto dell’anno e della vita, ci starebbe proprio bene. Voglio conoscere gente nuova, rilassarmi, impegnarmi e soprattutto poter dire agli altri che ho iniziato a frequentare un corso. Certo. Però per far più bella figura, e per destare interesse e invidia, dovrebbe essere anche un corso particolare, di quelli che gli altri non ci hanno mai pensato.
Una novità, qualcosa di strano insomma! Sì, sì, si, stavolta farò proprio il corso che mi cambierà la vita. Imparerò finalmente come si fa e diventerò esperto. Magari acquisterò qualche potere magico, soprannaturale. Tutti rimarranno a bocca aperta quando dirò a cosa mi sono iscritto.
Ma di cosa? Prima che mi ponessi, di nuovo, questa domanda ho capito che per me era indifferente. L’importante era stupire. A ben pensarci qualcosa di culturale e di sensuale, di esotico e di esoterico, di ambientalista e di animalista, di teorico e di pratico. Stupirò tutti e me stesso.
La mia amica Ignazia di anni 56, casalinga che recentemente ha scoperto di essere in sovrappeso, si fa chiamare Mimma, perché Ignazia va da sé che è intollerabile. Mimma ha frequentato, nel corso di quest’anno bene 22 corsi, distribuiti tra primo, secondo e terzo quadrimestre. È una vera esperta nel settore. Lei sostiene che nessuno di questi corsi l’abbia soddisfatta, in quindici si è fermata alla sola lezione di prova.
Mimma sostiene di soffrire di fame nervosa ed ha appena iniziato una dieta ayurvedica. Ho notato che possiede tre bottiglie di amaro in un mobile pensile della cucina.
Lei mi ha dato un’ottima idea. Geniale nel vero senso della parola. Si tratta di un corso dove s’insegna a costruire le lampade di Aladino. È un brevetto tedesco e non bisogna dubitarne. Sono previsti anche lauti guadagni se uno, poi, si mette in proprio.
Mimma mi ha convinto ed oggi sono andato alla prima lezione. Quella di prova. Ambiente simpatico, maestro simpatico, luci soffuse, profumi d’incenso. Tutto mi sembrava ideale.
Il maestro ci ha fatto accomodare in cerchio (in questi ambienti si usa così) e ci ha iniziato a spiegare le finalità del corso (che bravo, si vede proprio che è un maestro che sa tutto!). Ad un  certo punto ho avuto bisogno di fare pipì. Cosi ho chiesto dov’era il bagno e ci sono andato.
Nel corridoio c’era uno scatolone dal quale fuoriuscivano degli oggetti che sembravano proprio delle lampade come quelle di Aladino. Non ho saputo resistere e ne ho presa una. Mi sono infilato nel bagno e l’ho incominciata a sfregare.
Dopo un po’, come era da prevedere, è uscito un piccolo Genio. Anzi, a ben guardare, si trattava di una Genia,  molto carina. Abbiamo parlato per qualche minuto, poi lei mi ha proposto di fuggire insieme.
- E la pipi? Le ho chiesto io.
- La farai altrove! Mi ha risposto saggiamente lei.  

© 2016 Gianfranco Brevetto

martedì 15 novembre 2016

A NOI BASTA IL NOSTRO TEMPO

Evidentemente oggi è una giornata molto particolare.
Ho telefonato al mio amico Forlimpo Filippo, di anni 52, attualmente in cerca di prima occupazione,  per chiedergli come stava. Non mi ha lasciato nemmeno finire la domanda e mi ha detto che aveva molto da fare: era un periodo di tanti impegni da non lasciargli nemmeno un minuto di riposo. Mi ha parlato per circa un’ora delle tante cose che doveva o avrebbe dovuto fare, improrogabili quanto indefinite. Abbiamo poi interrotto  la telefonata perché aveva, nemmeno a dirlo, da fare.
Ho telefonato quindi a Mascarano Terenzia, di anni 42, nota per aver più volte disturbato la quiete pubblica per la sua risata incontenibile. Forse era il suo compleanno. Mi ha risposto la figlia e mi ha detto che la madre era , in quel momento, occupata e che avrebbe avuto impegni per tutta la giornata. Ho deciso di uscire, per fare due passi e godermi la bella stagione.
In ascensore ho incontrato una persona anziana, il signor Morotti Aldo, classe 1926, ex alpino. Il signor Morotti Aldo, di fu Milziade e fu Vittoria Contapassi, era da qualche anno pensionato e, apparentemente, a riposo. Si è innervosito perché l’ascensore ci metteva troppo tempo a scendere dal secondo piano, mi ha detto che sarebbe dovuto andare alla posta, poi alla banca, poi al comune, poi allo sportello invalidi, poi all’inaugurazione di un negozio di pianoforti, poi a scuola di suo nipote, poi al supermercato, poi in palestra per fare la ginnastica dolce per rilassarsi. Non si è potuto intrattenere nemmeno un secondo in più (gli avevo proposto un caffè al bar sottocasa)  perché aveva da fare assai.
Ho incrociato in strada, De Marcellis Paride, mio ex compagno di scuola, invecchiato prematuramente a causa di un matrimonio finito per cause ancora da accertare e, a lui, ignote. In un primo momento ha finto di non riconoscermi, poi si è fermato indicandomi la sua auto in sosta e, mentre freneticamente muoveva l’indice verso un berlina color caco che doveva essere la sua, mi diceva che doveva andare con urgenza a prendere uno zio che si era sentito male mentre andava dal dentista e che, mentre sveniva, gli avevano rubato il portafogli. Lo stesso portafogli che aveva recuperato durante l’incendio di una cantina di un suo amico. Mi ha detto, inoltre,  che era arrivato due volte ultimo alla maratona di Zanzovecchio, dove lui non aveva potuto partecipare a causa di un’unghia incarnita. A causa di tutto ciò, mi ha soggiunto mentre fuggiva via, che quest’anno sarebbe andato in montagna solo per qualche giorno perché amava il sushi.  De Marcellis Paride era noto a scuola per il suo impegno politico e per aver perso due volte il cappello durante le gite scolastiche.
Sono entrato in un alimentari e ho chiesto al commesso dove potessi trovare del pane carré. Mi ha detto di cercare dal quella parte perché lui aveva da fare. Anzi mi ha detto anche di scostarmi: doveva passare e  intralciavo. Ho atteso che si liberasse per poter chiedere anche delle alici sotto sale ma, dopo tre quarti d’ora, sono andato via.
Tornando a casa, sono passato dal medico curante. Il dottor Lo Fosco Ubaldo (che secondo lui si pronuncia Ùbaldo, perché la mamma era originaria delle Isole Comore), di anni 38, è proprietario di una barca a vela sulla quale ospita, a dire dei suoi pazienti (me escluso), donne di facili costumi. Essendo, in quel momento, il dottor Lo Fosco  molto occupato, ho cercato di prendere un appuntamento tramite la sua segretaria. La detta segretaria è la signorina Vela Linda, di anni 25, abbronzata, fa come secondo lavoro la portatrice di tatuaggi sulle natiche. La segretaria non mi neanche degnato di uno sguardo e, mentre parlava concitatamente al telefono, mi ha detto di ripassare all’inizio del prossimo anno.
Saverio è un mio amico, è venuto stasera a trovarmi e mi ha chiesto: come stai? Gli ho detto che non lo sapevo. Saverio è un  filosofo in pensione e, da qualche anno, si rifiuta anche di pensare. Abbiamo bevuto una tisana.
Prima di andare via, mi ha detto di aver letto da qualche parte che le cose da fare a questo mondo, da qualche anno, erano di molto aumentate. In più, chi nasceva ora si trovava sulle spalle anche il carico delle cose da fare che aveva lasciato chi era, nel frattempo, morto senza poterle portare a termine. Saverio mi raccontava, a sostegno di questa tesi,  di un suo nipote di 8 anni che aveva ancora da accompagnare la nonna a scuola e che si trovava in difficoltà perché la nonna era morta e la scuola era chiusa da venti anni. Saverio, tra l’altro, doveva ancora andare a comprare delle scarpe numero 46, lui portava il 43 ma le scarpe le avrebbe dovute acquistare il suocero quando, affaticato e impegnatissimo com’era, lasciò questo mondo all’età di 97 anni.  
E di molti altri impegni inevasi Saverio mi raccontò, fino a che il sonno non ci appesantì gli occhi. Guardai Saverio, mi guardò anche lui. Ci demmo appuntamento per l’indomani. Avremmo fatto  due passi e poi chissà dove saremmo andati a chiacchierare.
A noi basta il nostro tempo.

©Gianfranco Brevetto 2016


lunedì 19 settembre 2016

LO SPRITZ CHE A SPRATZ CI SPRUTZ LA VITA

Il mio amico Amedeo non sa resistere. Prima  di cena o di pranzo ,  vuole uno spritz. Perché? Non lo so!
Lo frequento abbastanza  e mi sono accorto che, i momenti in cui si abbandona allo lo spritz, sono tanti e variamente distribuiti durante il giorno. Lo spritz c’è  a metà mattinata, prima di pranzo, a metà pomeriggio, prima di cena, prima di coricarsi. Sembrerebbe, da quello che mi racconta Amedeo, che  con lo spritz si fanno delle pause. ad ogni pausa corrisponde uno spritz, ma non è detto che ad ogni spritz corrisponda un momento della giornata ben definito.  Comunque l’assunzione di spritz sembrerebbe, sempre secondo il racconto di Amedeo,  seguire alcune regole di ripartizione del tempo della giornata che, in questa prospettiva, diventerebbe più ordinata ed accettabile.
Una volta, con la scusa che tutti fanno la pausa dello spritz, mi sono fatto convincere dal mio amico a farla anche io. Per non essere da meno ma, soprattutto, per aver qualcosa da raccontare, un domani, ai miei nipoti. Insomma per poter loro dire: c’ero anche io.
Credevo, inoltre, che fosse giunto il momento di tralasciare i caffè e i cappuccini con i cuoricini e le faccine disegnare con la schiuma e dedicarmi a qualcosa di più serio ed esaltante.
Siamo quindi arrivati in centro città, dove gli aperitivi acquistano tutta la loro importanza. Il Bar, con una miriade di tavolini all’aperto si chiamava, tanto per restare inosservato, Gran Bar Excelsior. Ci siamo accertati che gli altri stessero lì per lo spesso motivo e ci siamo accomodati. Dimenticavo che, poco prima, eravamo passati da un sarto amico di Amedeo che ci aveva, in tutta fretta, adattati e prestati due vestiti da aperitivo.
In quel momento mi sono sentito un altro, diverso. Ero contornato da tutti quegli spritz con tante patatine, noccioline, pezzettini di pane con creme varie, olivette con e senza nocciolo, , rotolini di acciughe con dentro pezzettini di peperoni, ombrellini e rotelline di carta, fette e fettine di agrumi vari,  scorzette e  ciliegine. Stuzzicadenti, forchettine e forchettone, salviettine, bicchierini, bicchieroni colorati, cannucce, cucchiaini.
Insomma un mondo festoso e colorato. Attorniato da tutta quella bella gente, ho notato subito una signora sui quaranta che lasciava volutamente scoperta una spalla e ho  creduto che lo facesse per me. Pensavo che, quella dell’aperitivo,  fosse una sorta di pausa felice in un mondo sempre più degradato dalla corruzione e dalla violenza. Una beatitudine frizzante e variopinta. 
Ho persino, ma solo per un attimo, pensato di essere felice. Lo devo confessare, in quel tintinnio di bicchieri e fughe improbabili di olive bianche e nere, ho compreso finalmente l’importanza dello spritz.
Ho ringraziato Amedeo che mi aveva portato con lui in centro, al Gran Bar Excelsior. Ho lasciato di malavoglia  il tavolino cosparso di noccioline disperse e frammenti di patatine. Ci siamo dati appuntamento a domani, ma forse anche prima.
Che bello il mondo degli aperitivi! Non lo lascerò più. Lo prometto. Anzi credo che sarà la mia unica ragione di vivere. In mancanza d’altro.


©2016 Gianfranco Brevetto

lunedì 12 settembre 2016

DUPLICATO SARA' LEI!


Sembra che uno dei più grandi imperativi dell’età contemporanea sia quello di coordinarsi. 
Non solo nei tempi, ma anche nei colori, nelle fantasie, nelle letture, ascolti, idee. Ma anche gli orari in cui fare sesso o andare al bagno. La scusa è quella dei bioritmi che, se utilizzati al meglio, danno il massimo risultato. Chissà!
Mio zio Nicola aveva scelto di vivere per conto suo, con pochi contatti con gli altri e limitandosi ad ammirare i concittadini  affacciato al terrazzo o alla finestra di casa. Aveva la fortuna di abitare al centro di una grande città e poteva vedere tanta umanità sfilare sotto i suoi occhi.
Pochi amici e pochi parenti, non si era mai sposato. Non aveva mai avuto fidanzate. Non aveva mai lavorato, potendo contare su di una discreta rendita. Poche volte era partito per le vacanze, diceva che a casa sua stava meglio di qualsiasi altra parte.
Fin qui tutto noiosamente normale se non fosse che, a zio Nicola, dava fastidio qualsiasi cosa doppia, simile, rassomigliante, che ricordasse anche lontanamente qualcos'altro.
Aveva così deciso di modificare il suo nome in zioNicola (una sola parola) per evitare di confondersi con altri zii. Non possedeva oggetti che fossero identici o doppi: usava un mono ciclo per spostarsi, le posate erano pezzi unici come  i piatti,  il tavolo della sala aveva solo una gamba poi era accostato al muro, comprava una bottiglia di acqua alla volta, non usava mai lo stesso vocabolo quando parlava o scriveva.
Odiava i gemelli, i calzini, gli occhiali e i pantaloni. Come le paia di scarpe, le dita della mani e dei piedi.
Questa idiosincrasia era nei confronti  dell’uguale, delle cose coordinate e coordinabili, delle immagini doppie o speculari.
Per lui, tutte le cose e le persone avevano un senso solo se uniche. Per questo i suoi vestiti, quei pochi che aveva, li ordinava direttamente da un sarto su modelli esclusivi, la carrozzeria ed il motore dell’auto erano personalizzate e protette da copyright. I mobili di casa erano anch'essi fabbricati da artigiani su progetti tenuti in gran segreto.
Guai agli specchi! Avevano il difetto di duplicare e riflettere. Non festeggiava il compleanno per evitare di mischiarsi con tutti quelli che nel mondo erano nati nel suo stesso giorno.
Insomma Zionicola (guai a scriverlo due volte nello stesso modo) era fatto così. E come non dargli torto. Ci teneva a vivere nell'unicità, come unico lui pretendeva di essere.
ZiOnIcOlA era veramente originale, e aveva fatto dell’originalità il suo unico modo di vivere, ma di questa sua idea non ne parlava mai in pubblico: aveva paura di essere copiato.
Ma alla fine, tutto questo lavoro valse a poco. E sapete bene dove voglio arrivare. Questa sua opinabile, quanto rivoluzionaria e utopistica,  idea crollo proprio nel giorno della sua morte. Ma non fu come  immaginate. 
ZIOnicola aveva, infatti,  programmato e disposto, su questa terra,  in modo da non venire meno alle sue convinzioni.
Ma non aveva previsto l’aldilà. Qui, ZioNIcoLA,  oramai liberato dal suo unico corpo mortale è beandosi nella leggerezza della sua anima immortale, s’imbatté in quell'essenza alla quale mai aveva pensato nella pesantezza della materia: la sua unica ed insostituibile anima gemella.


© 2016 Gianfranco Brevetto